I Chicago gruppo rock statunitense, formatosi nel 1967, sono una poderosa jazz-pop band, sette elementi padroni e virtuosi alfieri del proprio strumento, un'autentica “macchina da guerra” che ha prodotto nella golden era dei primi anni “70 i più bei dischi della nuova rock-fusion sull'onda dei Blood Sweet & Tears. Tre fiati su di una chitarra alla Hendrix, la voce del bianco Terry Kath che “più nera non si può” e i ritmi devastanti di Danny Seraphine non si erano mai visti e sentiti fino allora ed eccoli esordire con la sfida del doppio LP già dalla prima uscita discografica.
Chicago Transit Authority del 1969 (170 settimane nella classifica americana dei primi 100) è la consacrazione di una band coagulatasi nei campus anche sulle spinte delle aggregazioni e delle ribellioni studentesche nate proprio nella città dell'Illinois.
E' il tastierista Robert Lamm a tenere le redini della band, comporre e cantare buona parte dei brani anche se la stupenda cavalcata di Introduction è completo appannaggio di Kath e della sua orgogliosa voce “black”. La seguente Does Anybody Really Know What Time It Is? con Lamm al piano e voce solista si sfiora il capolavoro di costruzione sonora, grande jazz-song, grande tromba di Loughnane e cori perfetti; già consegnata alla storia. Ma è la seguente Beginnings sempre di Lamm che segnerà a fuoco il marchio dei Chicago: la sua voce calda accompagna i sinuosi fiati, la perfetta batteria e percussioni latine sostengono e accompagnano il basso di Cetera, tromba, trombone e sax si alternano agli assolo, i cori sottolineano la bellezza del brano. Question 67 and 68 è uno di quei brani epici sostenuti dalla limpidissima voce di Peter Cetera che conoscerà giustamente un successo personale per via di questa sua caratteristica vocalità; veramente un gioiello. Listen, il più corto dei brani, poco più di 3 minuti contro i 5/8 minuti degli altri è un'altra cavalcata di ottoni con il caratteristico basso arrembante. Poem 58 di Robert Lamm chiude quella che fu la seconda facciata dell'LP interamente dedicata al tastierista sia come composizioni che come voce solista e dove la chitarra distorta conduce la corsa per gli oltre otto minuti del brano.
Free Form Guitar che apre la terza facciata, dà libero sfogo all'immaginazione sonora del chitarrista Terry Kath con improvvisazioni sulla sei corde, rombi, gemiti, effetti larsen, scale ascendenti e discendenti sulla tastiera della sua Fender. Torniamo alla canzone pura con South California Purples, rock-blues di organo e basso con inserito un divertito omaggio ai Beatles di Walrus, anticipa il pezzo forte dell'album, I'm A Man, il brano di Steve Winwood composto a diciassette anni per i suoi Spencer Davis Group che qui riacquista una nuova sensazionale vita con percussioni trascinanti, la chitarra wah-wah, l'Hammond stratosferico e le tre voci (Lamm, Cetera, Kath) che si alternano alle strofe dando al brano una dimensione di unicità eterna. Per i posteri anche l'assolo di batteria Slingerland dell'italo-americano Danny. Quarta facciata e rumori di disordini studenteschi introducono Someday e la lunghissima Liberation quasi 15 minuti, brani live registrati nell'agosto del 1968 durante le assemble universitarie che certificano la bravura e la coesione della band anche dal vivo.
In seguito la locale compagnia di bus e metrò, appunto la CTA-Chicago Transit Auhority, unica proprietaria del moniker si arrabiò (BAH!) per l'utilizzo del proprio marchio e furono costretti ad abbreviare il nome della band semplicemente in Chicago.
L'intero lavoro è stato rimasterizzato nel 2002, completato con i minuti originali mancanti e le quattro facciate portate in unico cd che ci riconsegna intatta la perfezione del suono e l'affiatamento di questa band basilare per tutto il jazz-rock, il pop-funky, il pop-jazzy e la fusion che dilagherà negli anni “80 e “90.
Tracce:
Side 1
1.Introduction
2.Does anybody really know what time it is?
3.Beginnings
Side 2
4.Questions 67 and 68
5.Listen
6.Poem 58
Side 3
7.Free form guitar
8.South California purples
9.I'm a man
Side 4
10.Prologue, August 29, 1968
11.Someday (August 29, 1968)
12.Liberation
Formazione:
Peter Cetera - basso, voce, agogô
Terry Kath - chitarre, voce
Robert Lamm - piano, organo, tastiere, voce, maracas
Lee Loughnane - tromba, legnetti
James Pankow - trombone, campanaccio
Walter Parazaider - legni, tamburello basco
Danny Seraphine - batteria, percussioni
Verso la fine del '66, Signe Toly Anderson, che purtroppo ci ha lasciato il 28 Gennaio 2016, essendo in stato interessante, decide di abbandonare i Jefferson Airplane per dedicarsi al prossimo nascituro e alla famiglia. La band si trova improvvisamente sull'orlo dello scioglimento e decide di accogliere nelle sue fila la cantante/compositrice e strumentista Grace Slick, conosciuta durante gli innumerevoli concerti di quell'anno. Grace Slick, dotata di una bellissima e potente voce e di una ottima vena compositiva, era la front-woman della band acido-psichedelica The Great Society, uno dei primi gruppi che miscelava gli stili del rock-garage americano con influenze orientali. Nello stesso periodo c'é un'altra defezione, Skip Spence se ne va per formare i Moby Grape, dopo la parentesi come batterista alla corte dei Jefferson Airplane, ritornando al suo vero strumento, la chitarra, il suo posto viene preso da Spencer Dryden, nasce così la formazione dei Jefferson Airplane che arriverà al successo. Grace Slick porta con se dai Great Society due sue composizioni che a livello locale avevano avuto un certo successo e che, riveduti e corretti, diventeranno due tra i brani trainanti di Surrealistic Pillow (RCA 1967). I due brani di Grace: Sombody to love e White rabbit, sono tra i brani che danno il via alla lunga estate californiana, la "summer of love" del popolo hippie, che ha il suo epicentro a San Francisco. White rabbit in particolare diviene il manifesto di un movimento che partendo dalle strade della zona di Haight Ashbury, si espanderà in breve tempo a livello mondiale.
La musica dei Jefferson Airplane, sotto la spinta di Grace, si espande, diviene più complessa, assume toni furiosi, il basso di Cassady si fa tuonante, la chitarra di Kaukonen si fa lacerante ed eccheggiante di distorsioni, i ritmi divengono spezzati per lievitare poi in imperiosi crescendi, si affinano le parti vocali (prima improntati al folk rock), che via via assumono quella particolarità, che diverrà il loro marchio di fabbrica, il particolare intreccio tra Grace, Balin e Kantner, con la voce a turno, di chi fa da background, sempre leggermente ritardata rispetto alle altre due. Surrealistic pillow sarà il primo disco uscito dalla Bay Area a divenire disco d'oro, i testi, ermetici, ma sempre più improntati alla protesta nei confronti del sistema e della american way of life, faranno diventare i Jefferson Airplane la punta di diamante del movement, che minerà dalle fondamenta la società americana.
Il disco contiene, oltre ai due capolavori vocali di Slick, le prime caleidoscopiche sonorita` allucinogene, soprattutto nelle irruenze corali di She Has Funny Cars e 3/5 Of A Mile In Ten Seconds. Plastic Fantastic Lover poi e` l'incubo incalzante di un minstrel moderno a ritmo ossessivo con contrappunti lisergici di basso e chitarra. Al lato tenero e dolce del folk-rock si concedono il tenue e crepuscolare melodismo di Today e Coming Back To Me (Balin), la distesa ballata country di Dryden My Best Friend e l'assolo cibernetico e spirituale di Kaukonen Embryonic Journey.
Tracce:
01. She Has Funny Cars
02. Somebody To Love
03. My Best Friend
04. Today
05. Comin’ Back To Me
06. 3/5 Of A Mile In 10 Seconds
07. D.C.B.A.-25
08. How Do You Feel
09. Embryonic Journey
10. White Rabbit
11. Plastic Fantastic Lover
Formazione:
Marty Balin – Voce, chitarra
Jorma Kaukonen – Chitarra solista, ritmica, voce
Grace Slick – Voce, pianoforte, organo, flauto dolce
Paul Kantner – Chitarra ritmica, voce
Jack Casady – Basso, fuzz bass
Spencer Dryden – Batteria, percussioni
I Chicago gruppo rock statunitense, formatosi nel 1967, sono una poderosa jazz-pop band, sette elementi padroni e virtuosi alfieri del proprio strumento, un'autentica “macchina da guerra” che ha prodotto nella golden era dei primi anni “70 i più bei dischi della nuova rock-fusion sull'onda dei Blood Sweet & Tears. Tre fiati su di una chitarra alla Hendrix, la voce del bianco Terry Kath che “più nera non si può” e i ritmi devastanti di Danny Seraphine non si erano mai visti e sentiti fino allora ed eccoli esordire con la sfida del doppio LP già dalla prima uscita discografica.
Chicago Transit Authority del 1969 (170 settimane nella classifica americana dei primi 100) è la consacrazione di una band coagulatasi nei campus anche sulle spinte delle aggregazioni e delle ribellioni studentesche nate proprio nella città dell'Illinois.
E' il tastierista Robert Lamm a tenere le redini della band, comporre e cantare buona parte dei brani anche se la stupenda cavalcata di Introduction è completo appannaggio di Kath e della sua orgogliosa voce “black”. La seguente Does Anybody Really Know What Time It Is? con Lamm al piano e voce solista si sfiora il capolavoro di costruzione sonora, grande jazz-song, grande tromba di Loughnane e cori perfetti; già consegnata alla storia. Ma è la seguente Beginnings sempre di Lamm che segnerà a fuoco il marchio dei Chicago: la sua voce calda accompagna i sinuosi fiati, la perfetta batteria e percussioni latine sostengono e accompagnano il basso di Cetera, tromba, trombone e sax si alternano agli assolo, i cori sottolineano la bellezza del brano. Question 67 and 68 è uno di quei brani epici sostenuti dalla limpidissima voce di Peter Cetera che conoscerà giustamente un successo personale per via di questa sua caratteristica vocalità; veramente un gioiello. Listen, il più corto dei brani, poco più di 3 minuti contro i 5/8 minuti degli altri è un'altra cavalcata di ottoni con il caratteristico basso arrembante. Poem 58 di Robert Lamm chiude quella che fu la seconda facciata dell'LP interamente dedicata al tastierista sia come composizioni che come voce solista e dove la chitarra distorta conduce la corsa per gli oltre otto minuti del brano.
Free Form Guitar che apre la terza facciata, dà libero sfogo all'immaginazione sonora del chitarrista Terry Kath con improvvisazioni sulla sei corde, rombi, gemiti, effetti larsen, scale ascendenti e discendenti sulla tastiera della sua Fender. Torniamo alla canzone pura con South California Purples, rock-blues di organo e basso con inserito un divertito omaggio ai Beatles di Walrus, anticipa il pezzo forte dell'album, I'm A Man, il brano di Steve Winwood composto a diciassette anni per i suoi Spencer Davis Group che qui riacquista una nuova sensazionale vita con percussioni trascinanti, la chitarra wah-wah, l'Hammond stratosferico e le tre voci (Lamm, Cetera, Kath) che si alternano alle strofe dando al brano una dimensione di unicità eterna. Per i posteri anche l'assolo di batteria Slingerland dell'italo-americano Danny. Quarta facciata e rumori di disordini studenteschi introducono Someday e la lunghissima Liberation quasi 15 minuti, brani live registrati nell'agosto del 1968 durante le assemble universitarie che certificano la bravura e la coesione della band anche dal vivo.
In seguito la locale compagnia di bus e metrò, appunto la CTA-Chicago Transit Auhority, unica proprietaria del moniker si arrabiò (BAH!) per l'utilizzo del proprio marchio e furono costretti ad abbreviare il nome della band semplicemente in Chicago.
L'intero lavoro è stato rimasterizzato nel 2002, completato con i minuti originali mancanti e le quattro facciate portate in unico cd che ci riconsegna intatta la perfezione del suono e l'affiatamento di questa band basilare per tutto il jazz-rock, il pop-funky, il pop-jazzy e la fusion che dilagherà negli anni “80 e “90.
Tracce:
Side 1
1.Introduction
2.Does anybody really know what time it is?
3.Beginnings
Side 2
4.Questions 67 and 68
5.Listen
6.Poem 58
Side 3
7.Free form guitar
8.South California purples
9.I'm a man
Side 4
10.Prologue, August 29, 1968
11.Someday (August 29, 1968)
12.Liberation
Formazione:
Peter Cetera - basso, voce, agogô
Terry Kath - chitarre, voce
Robert Lamm - piano, organo, tastiere, voce, maracas
Lee Loughnane - tromba, legnetti
James Pankow - trombone, campanaccio
Walter Parazaider - legni, tamburello basco
Danny Seraphine - batteria, percussioni
The Wall è l'undicesimo album in studio dei Pink Floyd, pubblicato il 30 Novembre del 1979.
Durante l'ultimo concerto del tour In the Flesh, eseguito al Montréal Olympic Stadium nel luglio 1977, un gruppo di spettatori in prima fila irritarono Waters con le loro urla a tal punto che il bassista arrivò a sputare addosso ad uno di loro.
Incredibilmente, tutto il concept di The Wall nasce da un gesto avvenuto in un istante, emblema di un istinto che nella sua semplicità racchiude molti concetti e significati.
Roger Waters non perde tempo a comporre la prima demo del disco, puntando il dito questa volta contro un tema veramente scottante: The Wall è il disco rock che combatte il rock. La storia del concept segue come argomento principale la vita di Pink, una rockstar che dopo la sua ascesa, consumato dal successo, inizia a distruggere e ad allontanarsi da tutto ciò che ha attorno a sé. Ovviamente il tutto non è così tremendamente semplicistico, poiché nel suo percorso di isolamento la rockstar tocca della tappe che diramano i temi dell'album in maniera veramente ampia. L'allontanamento dalla moglie, la morte del padre in guerra, l'alienazione dalla società, le lotte con la grande "macchina" dell'industria discografica e altri temi. Il dipinto che lentamente prende colore sulla tela è la raffigurazione di un mondo che ha una facciata completamente diversa dall'anima: nonostante il rock significhi libertà, espressione e forza, in The Wall vediamo come dietro tutto ciò ci siano una lunga serie di obblighi, ombre e finzioni. Nel disco non mancano numerosi riferimenti alla vita di Roger Waters, che oramai aveva la leadership del gruppo e alla figura già mitologica del lontanissimo Syd Barrett, mai dimenticato. Ovviamente dietro la figura di Pink, possiamo vedere l'essere umano, l'uomo di ogni giorno, in continua lotta con le sue guerre interne e le ansie quotidiane. È qui che il platter trascende dalla concezione di disco per divenire un'opera d'arte.
In the Flesh? apre le danze con una progressione maestosa e degna di ciò che seguirà più avanti: subito viene in risalto la voce di Waters, accompagnata dai cori e dall'organo dell'ospite Fred Mandel. La punta di diamante della canzone è il finale, in cui prendono il sopravvento gli effetti sonori, ad emulare la caduta di un aereo ed il pianto di un bambino. L'esplosione lascia la scena a The Thin Ice, legando in pochi secondi due temi opposti, ovvero la nascita di Pink e la morte in guerra del padre. La scelta dell'effetto usato nell'intervallo fra le due canzoni è riconducibile a un riferimento autobiografico di Waters, in quanto il padre dello stesso bassista morì durante un assalto aereo ad Anzio nella seconda guerra mondiale, nei primi mesi di vita dell'artista. Il continuo alternarsi fra esplosioni sonore e momenti di calma imperversa nella seconda traccia del primo disco, costituendo uno schema classico che ritornerà poi nel corso dell'opera. Degne di nota sono le tanto semplici, quanto piacevoli, scale di Gilmour alla chitarra. Flanger e delay aprono uno dei grandi leitmotiv del platter, ovvero Another Brick in the Wall (Part I), che nonostante la struttura ripetitiva e semplice è costellata di piccoli effetti, dettagli e armonizzazioni che sospendono l'atmosfera con enorme maestria. Questa è una cosa che succede spesso nel disco: ci sono diverse tracce in cui non vi è un elemento sopra gli altri, ma un grande insieme di piccole cose che costruiscono in maniera omogenea l'ambiente. Pink si interroga sulla sua vita, ricordando nuovamente il padre e successivamente il suo difficile rapporto con la scuola che tende a spersonalizzare ogni individuo. Quest'ultimo tema è ripreso nel breve intervallo The Happiest Days of Our Lives e nella successiva Another Brick in the Wall (Part II). Anche la scuola è un elemento che non fa altro che posare mattoni intorno a Pink, costruendo il muro che lo porterà all'isolamento totale. L'ultimo brano citato si divide in due parti che ripetono la stessa strofa, la prima cantata da Gilmour e la seconda dal coro dei ragazzi della Islington Green School ad emancipare il tema trattato. Dopo il magnifico assolo, "cantato" da una Fender cristallina, vi è la chicca del maestro che riprende l'alunno dicendo: Se non mangi la tua carne, non avrai nessun budino. Come farai ad avere il budino se non mangi la tua carne?. Una frase tanto semplice, che gioca sulle parole, per mettere in risalto gli obblighi, le regole e la totale chiusura mentale delle scuole. L'analisi delle forze motrici che costruiscono il muro continua linearmente con Mother, lenta e dolce ballad acustica che fa tesoro di un meraviglioso assolo che esplode a metà canzone. La traccia parla del rapporto fra Pink e la madre iperprotettiva, che soffoca le esigenze del figlio (proprio come accade a Waters, infatti anche questo è considerabile come un riferimento autobiografico) e blocca il suo processo di crescita rendendolo incapace di vivere indipendentemente, privo di influenze decisionali. Le atmosfere più claustrofobiche e inquietanti, che segnano l'ormai vicino completamento del muro, iniziano ad affacciarsi con Goodbye Blue Sky ed Empty Spaces: i temi dell'isolamento e dell'assenza di comunicazione, fanno da padroni in questi brani che in alcuni momenti illudono con una finta dolcezza, che sfocia sempre in qualcosa di pesante e angosciante. Pink si domanda come potrebbe completare il muro e poco dopo Young Lust ci illustra la vita da rockstar stereotipata del protagonista, fatta di donne ed eccessi. I ritmi si fanno più sostenuti e la chitarra distorta, con una linea melodica che entra facilmente in testa, molto godibile. Rimanendo in tema, la voce di una groupie apre One of my Turns, una delle canzoni dall'aspetto più filosofico del platter, che prende in analisi il cambiamento: l'amore lentamente diventa grigio, come la pelle di un uomo che si avvicina alla morte, tutto cambia e nonostante facciamo finta ogni notte che le cose vadano bene, ci prendiamo in giro, invecchiando e freddandoci. Pink, così come Waters, dipinge il terribile aspetto della separazione dalla compagna. Una strada senza uscita che sfocia prima (nella seconda metà della canzone) in uno sfogo di follia della rockstar e successivamente, in Don't Leave me Now, nell'assoluta angoscia di essere definitivamente abbandonato a se stesso. Pink si chiede dove fosse la moglie quando lui ne aveva bisogno e si strugge implorandola di non lasciarlo solo in quel momento. Solo gli effetti e i sintetizzatori cupi di Wright accompagnano la straziante voce del bassista per tutta la prima parte della canzone, che esplode poi in maniera toccante e sognante. Con Another Brick in the Wall (Part III) ci avviciniamo inesorabilmente al finale del primo disco, nel quale Pink, dopo un urlo di rabbia, si rende conto di non avere più bisogno di nulla e di nessuno. La canzone riprende i motivi delle altre due parti, in maniera più pesante e distorta, come segno di un processo oramai sul punto di finire. La rockstar saluta il mondo, sostenendo che quest'ultimo non ha più nulla da dirgli per fargli cambiare idea. La cosa più grave non è la chiusura, ma il fatto che lui stesso sia compiaciuto e convinto di questa sua scelta. La follia si impadronisce totalmente di lui e, con Goodbye Cruel World, The Wall si chiude con l'alienazione totale.
Gli arpeggi e il basso corposo di Hey You aprono la seconda parte dell'opera, in cui Pink lancia un urlo di disperazione verso l'esterno, cercando aiuto da chiunque sia dall'altra parte del muro. Oltre ad essere una delle migliori canzoni dell'opera, Hey You è anche una delle maggiori prove di Gilmour, sia come cantante che come chitarrista in tutto The Wall. La linea vocale è veramente adatta al contesto musicale ed evocativamente ci invita quasi ad aiutare Pink. L'assolo, semplice quanto efficacie e tirato, genera un grande pathos tragico grazie anche al supporto di un riff trascinante. Due soli accordi alternati suonati con il sintetizzatore, delle voci modulate in sottofondo e qualche effetto aprono il brano che trasmette al meglio il senso di alienazione e isolamento dal resto del mondo di Pink. Is There Anybody Out There? è una gemma che, nonostante i cori così imponenti ripetano ossessivamente quella frase facendoci sentire così piccoli e soli, ci lascia anche un senso di morbida rassegnazione, una sorta di dolce derivare. Il pianoforte di Richard Wright torna predominante in Nobody Home, una ballad che ripercorre la vita della rockstar attraverso alcune immagini tipiche. Nei momenti più sentiti e incisivi del cantato, vengono proposte delle parole che richiamano di nuovo l'elemento del telefono e del fatto che dall'altra parte non ci sarà nessuno a rispondere. Nonostante Pink abbia tutto, si accorge di come realmente non abbia nulla. In questo brano l'immagine di Syd Barrett torna ad aleggiare attorno ai Pink Floyd. Il tema della guerra torna a occupare la scena di The Wall con Vera: il nome del brano fa riferimento a Vera Lynn, artista dei primi del '900 le cui parole venivano cantate dai soldati durante la seconda guerra mondiale. I versi del bassista esprimono il risentimento del fatto che tutto era una bugia propagandistica: Nessuno ricorda Vera Lynn? Ricordo come lei disse che ci saremmo tutti incontrati di nuovo in un giorno soleggiato. La breve canzone è immediatamente collegata alla maestosa marcia Bring the Boys Back Home, poiché non tutti si sono incontrati nuovamente in un giorno di sole, essendo molti morti in guerra. Le sonorità forti e imponenti mettono in risalto l'importanza dei legami umani, della famiglia, del non lasciar nuovamente i bambini da soli. Sul finale della breve traccia sentiamo nuovamente alcuni voci miscelate: il maestro di Another Brick in the Wall (Part II), una voce di donna che ci chiede se ci sentiamo bene, la voce di qualcuno che bussa alla porta e dice che è tempo di andare, ovvero il manager che sta richiamando Pink, che è nel suo camerino, a salire sul palco. Il tutto culmina nel salendo con una reprise della frase Is there anybody out there?, che rievoca la solitudine interiore. Comfortably Numb, una delle maggiori punte della discografia dei Pink Floyd, scorre su un'orchestra leggera e morbida, sulle quali si alternano le voci di Gilmour nei ritornelli e di Waters nelle strofe. La canzone punta il dito contro la macchina dell'industria discografica, personificata nel dottore che droga Pink pur di costringerlo a salire sul palco per eseguire lo show. La rockstar è completamente in balia dei produttori e dei medici, degli attacchi di panico e nella totale assenza di controllo su se stesso che culmina in un grido come quello che apre la seconda strofa. Avete presente quegli assoli di chitarra eterni? Quelli che uno sente da sempre, che ha nei primi ricordi con i nostri genitori da piccolo, che ogni volta che li ascolta trova qualcosa di nuovo e di vecchio attraverso delle nitidi immagini? Personalmente con quello di Comfortably Numb è così ed immagino sia altrettanto per molti: il suono dell'emotività, della disperazione e di un intenso mood drammatico sfiorato da note acute e taglienti. The Show Must Go On è un breve intermezzo in cui Pink, richiama il padre e la madre, pregandoli di portarlo a casa, in balia dell'incertezza di essere in grado di affrontare l'esibizione. La dolce supplica si conclude con la folla che acclama la rockstar sul palco. Le sonorità vengono completamente riprese dalla traccia con cui tutto inizia: In the Flesh con la sua progressione incalzante e trascinante racconta di un Pink in preda alla follia, che non si presenta più come se stesso ma come un dittatore che attacca tutti ed urla di mettere al muro ogni categoria: ebrei, neri e omosessuali, dicendo che se potesse fare a modo suo farebbe uccidere tutti. Run Like Hell non è altro che il proseguo dello show, in cui Pink incita tutti a muoversi ai tempi quadrati in quattro quarti come quelli della disco music. Quello che è stato fatto a lui nella scuola, la disumanizzazione e la spersonalizzazione, deve essere applicato a tutti, che devono essere omogeneamente identici a lui. La canzone si muove sulla chitarra pulita in delay di Gilmour e su dei tempi ben scanditi da una sezione ritmica estremamente precisa, che mette in risalto il basso pieno e profondo. Tornano i cori di The Show Must Go On, aperti dal conteggio Eins, zwei, drei, alle!, volutamente in tedesco a richiamare la dittatura nazista. Così viene lasciata la scena a Waiting for the Worms, che evoca nuovamente la figura dei vermi, già citata in Hey You come simbolo della rovina e della distruzione interiore, questa volta riproposta come rappresentazione di un gruppo filofascista in marcia su Londra, annunciato attraverso un megafono che incita a unirsi a loro. La canzone dal ritmo più rock e martellante è un insieme di leitmotiv del disco, che si conclude con la folla che ripete Hammer, Hammer. È la coscienza di Pink che si risveglia lentamente incitando a distruggere il muro. Successivamente con la brevissima Stop, Pink decide di fermarsi definitivamente, togliere la sua uniforme da dittatore e lasciare il palco per sempre sulle note delicate di un pianoforte che lasciano tutto in sospeso. Questa sensazione dura poco, mentre si sente il rumore di un chiavistello che apre la cella di Pink in attesa di giudizio, che viene chiamato di fronte alla corte che lo giudicherà. The Trial presenta una stranissima e originale composizione puramente orchestrale dallo stile teatrale, cantata da diversi registri vocali che impersonano altrettanti personaggi della storia di Pink in un dialogo che ripercorre le tappe della costruzione del muro: tornano il maestro della scuola, la soffocante madre iperprotettiva, la moglie che lo ha abbandonato e si aggiungono le figure dell'avvocato d'accusa e del giudice verme, simbolo della difficoltà di Pink a tornare un individuo sano di mente. Viene presa in analisi tutta la costruzione del muro e in fatto che Pink sia diventato come l'individuo che più odia, colui che ha compiuto un crimine contro se stesso e l'umanità, colui che è stato causa della morte del padre in guerra: un nazista. La canzone si conclude con la sentenza del giudice, che ordina a Pink di mettersi di fronte ai suoi pari e distruggere il muro che lui stesso ha creato, che lo ha reso colpevole di accettare e dimostrare le sue paure. L'ultima parte è un continuo crescendo, magistralmente orchestrato, arricchito di una pesante chitarra distorta e dalla folla che ripete ossessivamente Butta giù il muro!. Sul rumore delle macerie e del muro che crolla il disco si appresta a finire, verso gli ultimi due scarsi minuti.
Gli ultimi evocativi minuti del disco scorrono in un'atmosfera dolcissima, su delle parole che invece di esser cantate, sono pronunciate delicatamente come una poesia. Outside the Wall è la morale del disco: alla fine siamo essere umani ed apparteniamo a una realtà che non ci permette di isolarci da essa, poiché ci saranno sempre delle persone che combatteranno per il nostro bene, opponendo resistenza e sbattendo il loro cuore contro il muro della nostra follia, ovvero quello di chi si isola. Alcuni barcolleranno e cadranno, poiché è nella natura del genere umano chiudersi nelle paure, nel dolore e in se stessi. Tutto ciò è quello che succede a Pink e che potrebbe accadere a ognuno di noi: il percorso con la sentenza finale che punisce la rockstar per ciò che ha fatto deve essere d'esempio per tutti noi. Le ultime parole del disco sono Isn't this where... che si collegano direttamente a ... we came in ?. In questo verso, Pink si chiede se quello è lo stesso punto da cui è entrato nel muro. The Wall è un cerchio perfetto che inizia esattamente dove finisce, e si ripete nell'eternità, per lasciarci un'ulteriore morale nella morale: nonostante riusciamo a uscire dalla prigione che ci siamo creati, dobbiamo stare attenti e non dimenticare mai gli errori che abbiamo fatto, poiché un nuovo muro è sempre dietro l'angolo e per quanti ne vengono distrutti altrettanti ne vengono creati.
Quando si parla di produzione è inevitabile non pensare a un disco del genere: ogni suono è curato nel minimo dettaglio e le canzoni, tutte dal taglio breve, sono perfettamente collegate come da grande tradizione dei concept album. In The Wall vi è tutto, dalle grandi linee melodiche a tutta quella serie di effetti sonori e trovate narrative estremamente azzeccate, che ci permettono di immaginare e seguire il filo della storia, intuendo anche numerose cose. Vi è molto di evocativo e profondo, non solo da un punto di vista tematico ma anche da quello strettamente musicale ed emotivo. Il disco può essere considerato, per quanto riguarda il progresso musicale, il canto del cigno del gruppo, nonostante sia già esso meno innovativo dei suoi predecessori.
Quello che segue alla grande opera del gruppo britannico è storia: un tour con esibizioni dalle scenografie immense e mai viste, un film di Alan Parker con Bob Geldof nel ruolo di Pink ed infine un monumentale show di Roger Waters (dopo l'abbandono del gruppo) nel 1990 per celebrare la caduta del muro di Berlino.
Un'infinità di parole sono state spese su questo album e altrettante ve ne saranno nel tempo a venire. Tirare le somme di fronte a un disco del genere è tanto complesso quanto immediato, se non vi fosse la consapevolezza che stiamo parlando dei Pink Floyd.
Tracce:
Disco 1
Lato A
1. In the Flesh?
2. The Thin Ice
3. Another Brick in the Wall Part 1
4. The Happiest Days of Our Lives
5. Another Brick in the Wall Part 2
6. Mother
Lato B
7. Goodbye Blue Sky
8. Empty Spaces
9. Young Lust (Roger Waters, David Gilmour)
10. One of My Turns
11. Don't Leave Me Now
12. Another Brick in the Wall Part 3
13. Goodbye Cruel World
Disco 2
Lato A
1. Hey You
2. Is There Anybody Out There?
3. Nobody Home
4. Vera
5. Bring the Boys Back Home
6. Comfortably Numb (David Gilmour, Roger Waters)
Lato B
7. The Show Must Go On
8. In the Flesh
9. Run Like Hell (David Gilmour, Roger Waters)
10. Waiting for the Worms
11. Stop
12. The Trial (Roger Waters, Bob Ezrin)
13. Outside the Wall
Formazione:
- Roger Waters – voce (eccetto traccia 7 Disco 2) e cori, basso elettrico, sintetizzatore EMS VCS3, chitarra acustica in Mother e Vera, chitarra ritmica in Another Brick in the Wall Part 3
- David Gilmour – chitarra principale e acustica, voce (Disco 1: tracce 2, 5–7, 9 e 11; Disco 2: tracce 1–2, 6–7 e 10), cori e armonie vocali, basso elettrico, pedal steel guitar, sintetizzatore Prophet-5 e ARP Quadra, percussioni, rototoms in The Show Must Go On, clavinet in Empty Spaces
- Nick Mason – batteria, percussioni, tamburello in Another Brick in the Wall Part 2
Altri musicisti
- Richard Wright – organo Hammond, pianoforte acustico e elettrico, sintetizzatori Prophet-5 e Minimoog, clavinet, bass pedals in Don't Leave Me Now
- Bruce Johnston, Toni Tenille, Joe Chemay, Stan Farber, Jim Haas, John Joyce – cori
- Bob Ezrin – armonium, sintetizzatore ARP String, pianoforte in Mother, One of My Turns, Nobody Home e The Show Must Go On – cori in Waiting for the Worms
- James Guthrie – piatti in The Happiest Days of Our Lives e Run Like Hell, sintetizzatore ARP Quadra in Empty Spaces e In the Flesh
- Micheal Kamen – arrangiamenti per la New York Symphony Orchestra
- New York Opera – coro in Bring the Boys Back Home
- Lee Ritenour – chitarra ritmica ed acustica in Comfortably Numb
- Studenti della Islington Green School (organizzati da Alun Reshnaw) – coro in Another Brick in the Wall Part 2
- Fred Mandel – organo Hammond in In the Flesh? e In the Flesh
- Jeff Porcaro – batteria in Mother
- Bobbye Hall – bongos e congas in Run Like Hell
- Jon DiBlasi – chitarra classica in Is There Anybody Out There?
- Joe Porcaro, Blue Ocean e altri 34 batteristi di New York – rullante in Bring the Boys Back Home
- Harry Waters – voce del bambino in Goodbye Blue Sky
- Chris Fitzmorris – voce della segretaria in Young Lust
- Trudy Young – voce della groupie in One of My Turns